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Flessibilità, autonomia e norme

Pubblichiamo l’intervento di Arianna Visentini, founder e CEO di VariAzioni, sul nuovo numero del quadrimestrale Start Magazine (Marzo 2021-Luglio 2021).

 

La cosiddetta Legge sul Lavoro Agile (n. 81/2017) è un importante esempio di come le discipline giuslavoristiche e del diritto del lavoro richiedano un dialogo e un’integrazione costanti con quelle sociali e organizzative. La legge citata, per gli effetti e il dibattito che sta generando, pone quesiti importanti da un lato sul senso stesso della subordinazione nel rapporto di lavoro e dall’altro sulla funzione dell’atto regolatorio in perenne tensione tra un adeguamento ai mutamenti sociali (il diritto come risposta alle nuove esigenze sociali) e una aderenza ai principi cardine “fondanti” i comportamenti stessi (il diritto come norma di riferimento che “guida” l’azione individuale e collettiva).

Quali sono allora i concetti, le discipline e gli approcci metodologici che si possono mettere in campo per provare a mettere ordine in una materia così complessa, o quanto meno per provare a delineare un terreno di confronto comune, immaginando una applicazione auspicabile di tale nuova modalità di lavoro e per provare a promuoverne l’adozione? Nelle righe che seguono sarà l’esperienza sul campo – supportata da qualche rudimento di diritto del lavoro e scienze dell’organizzazione – a delineare qualche pista interpretativa, spunto concettuale e alcuni suggerimenti su una possibile evoluzione nella disciplina del Lavoro Agile applicata in modo coerente con lo spirito che le ha dato origine.

 

La terza via dell’equilibrio organizzativo

Occorre innanzi tutto precisare che le riflessioni oggetto della presente trattazione si inseriscono nel particolare solco della teoria che considera i fenomeni sociali come un flusso incessante di decisioni e azioni guidate da “intenzionalità” ovvero volte al raggiungimento di uno scopo specifico. Si tratta, in estrema sintesi, di una lettura del contesto organizzativo (riconducibile a teorici come  Herbert Simon, Chester Barnard..) che si è sostanziata nel tentativo di superare due visioni diametralmente opposte della realtà: la prima di stampo cosiddetto fordista che considera l’organizzazione come un sistema meccanico e chiuso, soggiacente a dinamiche deterministiche il cui funzionamento è assimilabile a quello di una macchina, caratterizzato da un legame logicamente diretto tra causa ed effetto. La seconda che rinuncia invece a un disegno predeterminato della realtà preferendo concentrarsi su una comprensione ex-post del fenomeno organizzativo, considerando l’azione sociale come una perenne evoluzione risultato di fattori umani non prevedibili e nemmeno completamente controllabili. Si tratta di un approccio soggettivistico che guarda alla realtà come un organismo vivente.

La cosiddetta “terza via”, di  sintesi e equilibrio tra un approccio deterministico e uno psicologico-comportamentistico, postula la possibilità di disegnare l’azione organizzativa anche in un contesto di incertezza e di definirne gli scopi perseguibili attraverso gli strumenti della regolazione e del coordinamento dell’azione congiunta dei soggetti che partecipano al processo. L’azione orientata al risultato viene inoltre valutata nel suo scostamento dagli obiettivi auspicati.

Tra i concetti cardine attorno ai quali ruota la teoria dell’”equilibrio organizzativo”, che ruota attorno a concetti cardine come il principio della coerenza, a cui è possibile ricondurre anche quello della soddisfazione.  Il principio della coerenza prevede che non esistano “mezzi” efficaci di per sé o modelli universalmente validi. È invece essenziale individuare gli scopi dell’azione collettiva, studiare il contesto nel quale si inserisce, comprendere le esigenze peculiari dei soggetti che intervengono nel percorso e attorno a quelle premesse e condizioni costruire un percorso progettuale, definire attività e strumenti, stabilire le modalità di raggiungimento dei risultati.

La premessa di cui sopra risulta di importanza chiave nel momento in cui ci si chiede se e quanto una iniziativa legislativa sia efficace così come una qualsiasi attività o iniziativa collettiva. Il fatto che da più parti si invochino gli stessi indicatori per dimostrare l’efficacia così come l’inefficacia del Lavoro Agile, la sua utilità così come la sua dannosità, è presumibilmente la conseguenza di aspettative diverse, contesti differenti, visioni contrastanti. Non è quindi un Kpi in sé che determina il successo dello smart working o la sua efficacia.

 

Tra libertà e subordinazione

Libertà, autonomia e flessibilità non sono di per sé una soluzione e non generano di per sé valore e soddisfazione se non accompagnate da una definizione del senso di ciascuna di esse, da una modalità di agire all’interno di esse e da strumenti da adottare, così come da scopi da perseguire. La modalità di Lavoro Agile, ampliando la gamma delle decisioni che possiamo prendere in merito alla collocazione temporale e spaziale della prestazione lavorativa, ha senza dubbio rinforzato le dimensioni di libertà, autonomia e flessibilità al lavoro. Ma in un contesto abituato a regole, routine, istruzioni e prescrizioni ha portato anche complessità, disorientamento e timori. Ha inoltre messo in dubbio gli stessi principi di definizione del rapporto di lavoro subordinato fino ad oggi legato a confini spazio temporali ben definiti e all’esercizio del potere direttivo del datore di lavoro.

In realtà la legge sul Lavoro Agile accoglie e legittima una modalità di manifestazione del potere direttivo che si è andata trasformando nel tempo insieme a cambiamenti profondi che hanno interessato e interessano tutt’ora l’intera organizzazione del lavoro e del mercato.  A mansioni ripetitive, stabili e stanziali tipiche della fabbrica del secolo scorso, si sono affiancate prestazioni caratterizzate da un maggiore apporto intellettuale e da una maggiore variabilità che hanno restituito centralità anche allo stesso lavoro della fabbrica attraverso i nuovi modelli del  “toyotismo” o della “world class manufacturing”. Non c’è bisogno di spostare l’attenzione sulle software house della Silicon Valley per rendersi conto di quanto siano cambiati i paradigmi organizzativi anche nel contesto produttivo che non può più poggiare solo sull’esercizio del comando e controllo ma necessita di un contributo attivo del personale aziendale e di nuovi paradigmi di governo e gestione improntati a coordinamento, comunicazione, chiarezza, coinvolgimento, motivazione, partecipazione.

Se per potere direttivo intendiamo la facoltà del datore di lavoro di proporre una idea imprenditoriale, di organizzarla attraverso l’identificazione di strumenti e fattori della produzione, di definire le competenze necessarie per il raggiungimento del risultato, di progettare una struttura organizzativa nella quale ruoli e responsabilità sono chiari, perché dovremmo mettere in dubbio che anche in un contesto di maggiore autonomia organizzativa del singolo non si possa configurare una legittimità di tale potere? Il nuovo spazio di libertà proposto dal Lavoro Agile presuppone inoltre una adesione volontaria e reversibile ad un accordo nel quale le modalità di esecuzione della prestazione sono il risultato di un patto che nella sua reversibilità tutela la facoltà del datore di lavoro di organizzare in modo efficace ed efficiente l’attività imprenditoriale così come il collaboratore/trice che per qualsiasi motivo non dovessero trarre beneficio dalla remotizzazione del lavoro.

 

Verso un vero smart working

Secondo le ricerche svolte da Variazioni, la maggior parte delle persone che hanno sperimentato lo “smart working in lockdown” ne gradiscono la prosecuzione, seppure in una formula che ripristini la volontarietà dell’istituto e quindi una autentica possibilità di scelta di orari e luoghi di lavoro. Emerge anche una tendenza a utilizzare lo strumento senza differenze di genere, equità ravvisabile in particolare nei contesti ove è stato posizionato e utilizzato come strumento di efficienza organizzativa più che di conciliazione vita-lavoro. I partecipanti alle ricerche auspicano però un ritorno alla formula “mista o ibrida” che prevede un mix di presenza in ufficio e lavoro in remoto, riconoscendo il valore della relazione professionale e dello spazio fisico come potenziale fonte di identità, di motivazione, di realizzazione.

Non si tratta però di evidenze generalizzabili bensì di tendenze da ricondurre ad un utilizzo “razionale” e appunto “coerente” del Lavoro Agile che non è affatto scontato e che non si riduce ad una mera sottoscrizione di un accordo individuale. Introdurre autonomia organizzativa e concepire il percorso verso lo smart working come un’occasione di miglioramento organizzativo e incremento del benessere delle persone e delle imprese, implica infatti impegno, competenze e metodo adatti ad accompagnare un cambiamento epocale. Da questo punto di vista il percorso verso il vero Smart Working può tradursi in una reale occasione di crescita organizzativa per le aziende del nostro paese così come può costituire una cartina di tornasole per fragilità gestionali più profonde: molte aziende delle aziende che si dichiarano impreparate ad introdurre il Lavoro Agile, in realtà non sono consapevoli che le criticità addotte come ostacoli allo Smart working costituiscono fattori critici a prescindere, attenendo a dimensioni imprescindibili di efficienza, performance e governance.

 

Senso e coerenza della legge 81/2017

Ciò che sta accadendo negli ultimi mesi è una lettura dello smart working (nella sua accezione di “tele-lavoro forzato causa pandemia”) come una mancata risposta a taluni endemici problemi del nostro paese quando non addirittura come una causa. Tra gli “effetti collaterali” si evidenziano la desertificazione delle grandi città, la rarefazione delle relazioni sociali, il peggioramento della qualità della vita del genere femminile causata dal multi-tasking, un aggravamento della disparità nelle condizioni di lavoro tra chi può e chi non può accedere allo SW, la tendenza a lavorare più del dovuto, una sovrapposizione nociva tra dimensione personale e famigliare, un aggravamento del digital divide causato da una disomogenea diffusione delle infrastrutture informatiche e delle skill digitali, una riduzione della efficacia della PA, e così via. Ma a ben vedere, ciascuno di questi problemi non è stato provocato dalla diffusione del Lavoro Agile ma ha radici più profonde. Già in passato le criticità di cui sopra caratterizzavano la nostra vita sociale, famigliare e lavorativa sollecitando soluzioni, risorse e programmi ad hoc in grado di ridurre il gap di efficienza e sviluppo del nostro paese nei confronti del resto d’Europa. Il problema delle infrastrutture digitali, della partecipazione femminile al mercato del lavoro, dell’aggiornamento delle competenze per l’occupabilità delle persone, del gap nelle infrastrutture digitali e dell’efficienza della PA sono problemi che richiedono risposte ad hoc e che prescindono dall’utilizzo dello Smart Working che invece si è semmai imposto come una soluzione obbligata in  grado di garantire una seppur minima continuità lavorativa e del business.

Il vero Smart Working è invece un mezzo. E in quanto tale chiede di poter essere adottato con estrema elasticità proprio per potersi adattare ai più diversi contesti sociali, lavorativi e produttivi. Se proviamo a leggere la legge come:

  • un dispositivo che mette in sicurezza i lavoratori/trici pur in una cornice di maggiore autonomia di luoghi e orari di lavoro;
  • una opportunità che viene data alle persone e alle organizzazioni aziendali di definire con maggiore flessibilità le modalità di esecuzione della prestazione lavorativa;
  • un contesto nel quale le parti possono cercare un accordo “su misura” soddisfacente per entrambe, condizione imprescindibile perché la modalità trovi applicazione;
  • uno strumento che sancisce, quale sede elettiva del patto, un accordo individuale che restituisce dignità e legittimità alle esigenze personali di ciascuno/a;
  • un accordo negoziale che non impedisce il ricorso ad altri strumenti regolativi complementari (il regolamento, l’accordo sindacale…), a livelli normativi intermedi tra il nazionale e l’individuale;
  • un istituto capace di coniugare libertà e regole minime di tutela senza pur all’interno della cornice regolatoria della subordinazione e quindi del relativo impianto delle tutele;

se insomma, assumendo un approccio “innovativo” di legittimazione dell’evoluzione nei modelli organizzativi, si accogliesse il Lavoro Agile come un’opportunità monitorandone gli impatti, si dovrebbe agire nel senso di una protezione dei principi ispiratori la Legge 81/2017 e in particolare in difesa dei suoi connotati di semplicità e essenzialità perché “in ciò che non dice risiede la sua capacità innovativa e il suo enorme potenziale”. Dovremmo anzi, in questa ottica, rinunciare alla eccessiva burocratizzazione e prescrittività di alcune clausole che ne minano la potenziale estensione e adozione plastica nell’intento di risolvere criticità specifiche, come ad esempio il diritto di prelazione riconosciuto a madri e padri nell’accesso alla soluzione di Lavoro Agile, o l’obbligo di caricamento degli accordi individuali sul sito del Ministero del Lavoro.

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