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I costi dello smart working

Pubblichiamo l’intervento di Luca Pesenti, docente di Sociologia presso la Facoltà di Scienze Sociali e Politiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, pubblicato sull’ultimo numero del quadrimestrale Start Magazine (Marzo 2021-Luglio 2021).

Si sta molto discutendo in questi mesi sui pro e sui contro del cosiddetto smart working. Ne parliamo, più o meno consapevolmente, come se l’esperienza vissuta da milioni di persone a partire dal mese di marzo 2020 fosse a tutti gli effetti lavoro agile. Come se, insomma, fosse davvero qualificato da quelle caratteristiche di libertà, co-responsabilità e autonomia organizzativa che dovrebbero garantire la possibilità di lavorare “dove, come, quando
vuoi”. Nulla di tutto questo è davvero avvenuto, naturalmente. Ma tanto è bastato per far prefigurare ai profeti dello smart una nuova civiltà del lavoro remotizzato. Con slanci utopistici capaci di descrivere una nuova Arcadia in cui la trasformazione del lavoro porterebbe immediati benefici di sistema, capaci di riportare benessere e armonia anche nei contesti metropolitani più difficili.
Sarà vero? Da molti elementi, segnali deboli, deduzioni pratiche, è possibile cogliere qualche primo, sintetico elemento per una riflessione di sistema attorno alla seguente domanda: che impatti potrebbe avere sui sistemi urbani e sulle costellazioni di interessi un’eventuale transizione di massa a modalità di lavoro remotizzato? Tra i molti punti di osservazione possibili, ne proponiamo qui tre: la città, il lavoro, le disuguaglianze.

CITTÀ DA RIPENSARE
Gli ultimi mesi hanno mostrato con grande evidenza come, soprattutto nelle grandi città metropolitane, la remotizzazione di massa del lavoro di ufficio abbia profondamente modificato il tessuto delle relazioni urbane. La diminuzione drastica di passeggeri, da marzo a oggi, ha messo in ginocchio il sistema dei trasporti: a Milano, per esempio, l’Azienda dei trasporti (ATM) lamentava già a fine ottobre mancati introiti per oltre 300 milioni di euro.
Lo svuotamento delle aree a tradizionale insediamento di uffici e spazi direzionali ha contestualmente dato un colpo spesso mortale al comparto della ristorazione e più in generale quello del commercio, con inevitabile conseguenze occupazionali e impatti sulla vivibilità di intere aree a rischio di desertificazione commerciale.
Sono le due evidenze più significative di un primo movimento (in termini polanyiani) che sta già portando effetti disruptive su tutti questi ambiti (al netto naturalmente delle chiusure a singhiozzo imposte dai vari DPCM). Di certo la spinta alla remotizzazione si tradurrà anche (come è già stato) in una domiciliarizzazione del lavoro. Nelle grandi città si porrà una nuova questione abitativa, in particolare per i nuclei familiari impossibilitati ad avere a disposizione spazi adeguati. Se la soluzione degli spazi di co-working a pagamento perimetrali e periferici si presenta come una variante chic e di nicchia, più interessante è l’ipotesi di ristrutturare i contesti condominiali, predisponendo spazi comuni appositamente adibiti ad ufficio per chi ne dovesse avere necessità. In ogni caso, andrà totalmente riconfigurato il problema dei servizi (e anche delle politiche) di conciliazione cura-lavoro, in nesso con i tempi della città (che certamente dovranno cambiare), con la necessità di ripensare l’offerta di servizi di cura per far fronte alla crescente e non episodica presenza di persone che lavoreranno in casa. E ancora, andrà adeguatamente indagato l’impatto che questo cambiamento avrà sull’organizzazione familiare e dunque la necessità di ripensare l’intero sistema tenendo conto al tempo stesso delle esigenze del nucleo familiare e del singolo lavoratore-produttore. Tale riflessione non potrà coinvolgere esclusivamente il lato dell’offerta pubblica e la geografia dei servizi, ma andrà ampliato (dentro la logica tipica del welfare responsabile) a tutti i soggetti del welfare: l’offerta di welfare aziendale e quella del welfare comunitario e nonprofit dovranno necessariamente cambiare prospettiva, adeguarsi a una realtà del bisogno sociale che per altro la crisi economica inevitabilmente amplierà.

IMPATTO SU LAVORO E SINDACATI
La letteratura internazionale ci segnala come l’applicazione di forme di lavoro agile in azienda rappresentino una possibilità significativa soprattutto per le donne con rilevanti carichi di cura familiari. Da questo punto di vista è possibile ipotizzare che uno smart working di massa potrà rappresentare un utile sostegno per la crescita dell’occupazione femminile. D’altro canto, la spinta alla remotizzazione del lavoro potrebbe nascondere alcune insidie. Si sta diffondendo l’idea che in un futuro prossimo molte persone potranno evitare di trasferirsi dal Sud per lavorare in aziende del Nord Italia (come accaduto in modo crescente negli ultimi anni), rimanendo nel loro luogo d’origine proprio grazie alle opportunità introdotte dal lavoro agile.
Al di là dei rischi che, soprattutto per i giovani, ciò possa equivalere a un impoverimento nella dotazione di capitale relazionale (con le conseguenze ovvie in termini di carriere
interne e mobilità del lavoro), sullo sfondo è possibile intravedere anche un secondo rischio: quello della possibile delocalizzazione di alcune mansioni di ufficio verso Paesi a minor costo del lavoro, similmente a quanto già accaduto per quanto riguarda le produzioni manifatturiere. Si tratta dunque di un tema che apre profili di estrema delicatezza sul terreno, già scivoloso, della tutela del lavoro e dei suoi diritti. Con non poche sfide anche per il ruolo futuro dei sindacati: se è infatti già evidente in questi mesi che le relazioni industriali restano (e resteranno) centrali nella gestione di trasformazioni anche ampie e repentine sugli assetti dell’organizzazione del lavoro, è tuttavia possibile anche ipotizzare che lo smart working possa rappresentare a tendere un elemento di indebolimento della forza del sindacato, poiché aumentando l’individualizzazione e la separazione fisica dei rapporti lavorativi renderà inevitabilmente più complessa la capacità di proselitismo da parte delle organizzazioni di rappresentanza. Effetti di questo tipo si sono verificati in tutte le categorie in cui si è attuata una forte flessibilizzazione dei rapporti di lavoro, o dove la tipicità professionale prescinde in larga parte dalla presenza di un luogo fisico di lavoro.

DISUGUAGLIANZE SALARIALI
Una recente analisi effettuata dall’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (“Gli effetti indesiderabili dello smart working sulla disuguaglianza dei redditi in Italia”, INAPP Policy Brief n. 20, Roma, 2020) a partire da dati raccolti nel 2018, introduce infine il problema dei possibili effetti che un’applicazione ampia dello smart working potrebbe avere sulla distribuzione (e dunque sulla disuguaglianza) dei redditi. Se da un lato la propensione verso questa modalità di organizzazione del lavoro risulta più frequente in alcuni settori (finanziario, assicurativo, comunicazione, noleggio, agenzie viaggi, Pubblica amministrazione, servizi professionali), si evidenzia anche come i lavoratori a bassa propensione allo smart working presentino un reddito lordo mediamente più basso rispetto al gruppo dei più facilmente smartabili.
Dall’altro lato, un modello econometrico di tipo controfattuale ha stimato come un aumento generalizzato di attitudine allo smart working porterebbe a un aumento di salario medio lordo di 2.600 euro, ma al contempo anche a una crescita delle disuguaglianze salariali pari a un indice di Gini di circa 0,04, determinato in particolare da un aumento dei salari esclusivamente a beneficio dei lavoratori dipendenti ad alto reddito. Il vantaggio salariale sarebbe a beneficio esclusivo di lavoratori maschi, delle classi di età estreme (i più giovani e i più anziani), residenti nelle aree del Nord Italia. Anche qui, dunque, non esattamente una trasformazione a costo zero. Si può immaginare una riallocazione “a costo zero” del lavoro, dell’abitare, del commercio, dei servizi dai centri alle aree residenziali e/o periferiche, tale da garantire l’auspicio di avere “tutto entro 15 minuti da casa”? Difficile dirlo. Certamente occorrerà molta governance territoriale per provarci. Se l’attuale euforia smart dovesse effettivamente sostanziarsi in una nuova grande trasformazione determinata danuove e diffuse modalità di organizzazione del lavoro, sarà dunque necessario un secondo movimento per rendere questa trasformazione adeguata alle necessità di tenuta complessiva del sistema sociale ed economico.
Occorrerà, con ogni evidenza, la capacità di interrogarsi, per definire un approccio sistemico che tenga conto dei rischi di aumento della disoccupazione in alcuni ambiti, della necessità di ripensare i luoghi diversi dal centro città e delle zone di insediamento degli uffici, dei rischi di desertificazione delle zone centrali e dei centri direzionali, dell’accelerazione nelle tendenze alla gentrificazione delle città, dei possibili impatti sul commercio (alcune ipotesi possono essere quelle di una minor diffusione dei centri commerciali, dello spostamento di molte attività dalle aree centrali e/o direzionali verso le aree residenziali) e così via. Ci sarà da ri-pensare le città, insomma. Siamo pronti per farlo?

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