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In cerca di borghi nelle città. E di città nei borghi

Pubblichiamo l’intervento di Elena Granata, docente di Urbanistica presso il Politecnico di Milano e vicepresidente della Scuola di Economia Civile, sul nuovo numero del quadrimestrale Start Magazine (Marzo 2021-Luglio 2021).

Il virus è il vero urbanista e sta ridisegnando le nostre vite. Dalle metropoli sovradimensionate alla città del quarto d’ora. Co-working, riscoperta dei borghi e la sfida delle piccole e medie città.

Il cambiamento è sotto gli occhi di tutti. Lo sentiamo nelle nostre vite, lo osserviamo intorno a noi. I grandi magneti territoriali, Milano, Roma, Firenze, che per decenni hanno vissuto di spostamenti, di flussi in ingresso, di mobilità delle persone, hanno perso la forza attrattiva a vantaggio delle città medie e piccole dei loro dintorni. È stata proprio l’economia delle Reti e dei flussi, della mobilità e del turismo, a essere colpita duramente dagli effetti indiretti della pandemia. Un fatto che ci costringe a pensare alla relazione tra economia e luoghi in modo diverso.

Vite, organizzazione familiare, tempi di vita, assetti delle città, crisi di alcuni settori economici e nascita di nuove economie, tutto è strettamente legato. Se il lavoro individuale si svincola dal legame con luoghi collettivi, diventa mansione o obiettivo che ciascuno può svolgere altrove, in autonomia e isolamento, è evidente che gli impatti più visibili li vediamo soprattutto nei contesti
urbani più dinamici ed evoluti. E pongono domande radicali: che ne sarà di quelle decine di centri direzionali, palazzi di rappresentanza e grattacieli che le città hanno edificato negli ultimi decenni per dare visibilità e identità al lavoro collettivo? Si svuoteranno le città a vantaggio di territori più periferici, delle aree interne o del Sud del Paese?

METROPOLI IN ABITI FUORI FORMATO
Improvvisamente le grandi metropoli appaiono sovradimensionate. Come se indossassero un abito fuori formato, troppo grande e troppo largo. A Milano, come a Londra o Parigi, i mesi di inattesa sospensione delle attività lavorative e pubbliche hanno lasciato un segno profondo. Molti alberghi sono rimasti chiusi, la pausa pranzo non vede più locali affollati, i taxi attendono mestamente l’arrivo di un cliente in lunghe file e sono ormai troppo numerosi per una domanda di mobilità che si è contratta drasticamente. Abbiamo assistito ad una sorta di miniaturizzazione del territorio, che ci ha costretti a riscoprire relazioni locali, di prossimità, di vicinanza, a muoverci meno e a diventare più stanziali. Tutte le popolazioni urbane hanno cambiato ritmo. Gli studenti universitari sono rimasti a casa, seguendo lezioni a distanza dai luoghi più lontani dalle città e in parte si apprestano a proseguire così ancora per lungo tempo; si sono mossi meno i turisti, soprattutto gli stranieri che per
anni hanno affollato le nostre città.
Ovviamente l’impatto più rilevante sui contesti urbani l’hanno avuto però quei milioni di lavoratori (stimati tra i 6 e gli 8 milioni nel 2020, secondo i dati dell’Osservatorio smart working del Politecnico di Milano) che hanno lavorato fuori dalla propria abituale sede di lavoro.

La pandemia ha tolto l’ultimo velo di ipocrisia sulle nostre vite urbanizzate e l’attenzione alla crisi climatica corrobora le nostre certezze: non sono abitabili città dove predominano le automobili sullo spazio di pedoni e ciclisti, dove siamo soffocati dall’inquinamento dovuto al traffico
e al consumo di suolo, dove i tempi di vita sono organizzati intorno a picchi orari insostenibili. Questa fase di distanziamento spaziale sta costringendo amministratori e tecnici a mettere mano agli spazi pubblici, allargando l’ampiezza dei marciapiedi, rendendo possibile l’estensione
di bar e locali su piazze e strade, con un impatto decisamente positivo sulla vivibilità diffusa degli spazi, tracciando nuove piste ciclabili, temporanee o definitive, su strade esistenti oppure nei controviali. Allestimenti temporanei spesso destinati a diventare permanenti.

LA CITTÀ DEL QUARTO D’ORA
Il confinamento assoluto nello spazio delle nostre case ci ha fatto comprendere che il nostro destino è molto legato al modello progettuale e organizzativo delle città. Chiusi in casa, privati dell’accesso ai parchi, alle piazze, alle spiagge,
ai sentieri di montagna (come se lo spazio aperto fosse un pericolo di per sé), abbiamo capito che la nostra salute è proprio legata a quegli spazi e dipende da quanto spazio aperto pubblico e naturale abbia a disposizione ogni cittadino. Ma mancano ancora modelli convincenti cui fare riferimento. Questioni strutturali legate alla mobilità non sono risolvibili introducendo l’uso di monopattini, di biciclette elettriche o con qualche generoso chilometro in più di piste ciclabili.

Bisogna ripensare contestualmente spazi e tempi delle città. Sono ancora troppo sporadici gli esperimenti di desincronizzazione dei tempi urbani, sfasando e modulando gli orari delle varie attività, così da evitare accessi concentrati e eccessi di presenze in alcune fasce orarie, integrando meglio le attività di smart working con
le altre dimensioni della vita (l’ingresso a scuola, l’apertura di uffici e negozi, gli orari dei treni dei pendolari, la pausa pranzo). Proprio per questo motivo è una metafora temporale lo slogan politico più popolare degli ultimi mesi. La “città del quarto d’ora”, formula coniata dalla sindaca di Parigi Anne Hidalgo, è divenuta ormai l’unità di misura di ogni metropoli attenta al benessere dei propri cittadini. Riporta la città alla sua dimensione più umana, fatta di isole e comunità solidali (borghi?), nelle quali siano presenti scuole, servizi al cittadino, negozi e tutto quello che rende confortevole il vivere urbano, lasciando più possibile l’auto a casa. Un’esperienza che diventa modello cruciale di riferimento e di protezione collettiva nei momenti di crisi o di pericolo per la salute (un ripensamento profondo sull’urbanistica delle città avviene oggi come nell’Ottocento intorno ai temi della salute pubblica e dell’igiene sociale).

CO-WORKING E ALTERNATIVE ALLO SPAZIO DOMESTICO
Questa più sfumata distinzione tra lavoro e vita non significa per forza un ritorno del lavoro dentro le mura di casa, come da tutti noi sperimentato con qualche fatica e costrizione nelle settimane di lockdown. Anzi, proprio la difficile sovrapposizione tra sfera familiare privata e attività professionali ha confermato la necessità di immaginare alternative allo spazio domestico. Le città dovranno immaginare sistemi ibridi, facilitando il più possibile la condivisione di spazi extradomestici; le aziende dovranno valutare seriamente quali attività ciascuno potrà svolgere in autonomia e quali richiederanno condivisione
e prossimità, progettando in forme più mature ed evolute il lavoro da casa (andando oltre il tele-lavoro), la riduzione di tanti viaggi e riunioni inutili. Dovranno capire presto in quali modi valorizzare e integrare le piattaforme di videoconferenza che offrono grandi potenzialità d’uso, ma che dimostrano anche, in modo evidente, l’indispensabilità della nostra presenza fisica nei luoghi di lavoro, per attività creative e di programmazione.

Se questo è vero per tutti, lo è in primo luogo per le donne, per le quali è particolarmente urgente lavorare in luoghi diversi da quelli dove crescono i figli o si dedicano alle attività familiari. La perfetta sovrapposizione tra spazio di lavoro e casa può riguardare solo una piccola parte dei lavoratori e solo alcuni mestieri e per alcune attività. Sta già emergendo in molte città anche mediopiccole una forte domanda di spazi di lavoro condivisi, dove ricreare condizioni di lavoro e di socialità, di scambio e di mutuo aiuto, come nella tradizione del co-working, anche tra persone che svolgono lavori molto diversi tra loro.

L’OCCASIONE DELLE CITTÀ INTERMEDIE
La perdita della capacità magnetica e attrattiva delle grandi città potrebbe rivelarsi una grande occasione di protagonismo per le città medie italiane (25.000-250.000 abitanti), con i loro 11 milioni di persone, l’alta qualità di vita, percorribili a piedi, che godono di relazioni di prossimità e scambio con il proprio territorio o, si sarebbe
detto un tempo, piccole città a misura d’uomo. Un’occasione che si potrà cogliere solo se la qualità di vita che possono vantare sarà un punto di partenza, non di arrivo. Molto deve cambiare. Le città intermedie – così sono codificate a livello internazionale – hanno oggi occasione di sperimentare nuovi e diversi modelli di eccellenza, in radicale rottura con quelli ereditati, assumendo in maniera più radicale un ruolo strategico in alcune relazioni e conflitti: tra ambiente e persone, tra vita quotidiana e tecnologia, tra lavoro e future generazioni, tra salute ed economia.

Tutti temi che nei prossimi mesi richiederanno un’attenzione nuova. Con il progressivo allentamento delle restrizioni al movimento delle persone, la responsabilità sulla vita e la salute torna alla dimensione locale. È qui che ci si misurerà con la nuda vita: con la necessità di Reti di ascolto e sanitarie di territorio, con l’impoverimento delle famiglie, con la perdita del lavoro, con la dispersione scolastica, con forme di disagio psicologico. È qui che si dovranno prendere decisioni più coraggiose sia legate alla
salute sia alla crisi ambientale. Il futuro delle città medie dipenderà dalla capacità di prendersi cura dei beni comuni e del patrimonio ereditato dal passato in modo completamente nuovo, passando da una visione del mondo (solo) eco-nomica a una visione eco-logica, capace cioè di tenere insieme in modo nuovo le complesse dimensioni della vita quotidiana, con particolare attenzione ai beni comuni dal cui destino dipendiamo tutti: l’acqua, il suolo, l’aria, la luce e il cielo, ma anche l’educazione, l’accesso al web, le competenze digitali, i servizi al cittadino.

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