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Metaverso, prodotti sperimentali in cerca d’autore

L’appuntamento domenicale con l’approfondimento di Paola Liberace, coordinatrice scientifica dell’Istituto per la Cultura dell’Innovazione

 

Cos’è il metaverso? Se dovessimo definirlo in base ai numerosi resoconti giornalistici delle novità tecnologiche presentate all’ultimo Consumer Electronic Show – il Ces – di Las Vegas (falcidiato dalle assenze, ma pur sempre agli onori della cronaca), potremmo dire che si tratta di una parola. Affascinante, suggestiva, persino con risonanze filosofiche; diffusa, ripetuta, persino familiare ormai. Eppure, sarebbe difficile assegnarle una consistenza oltre le innumerevoli occorrenze nei comunicati stampa delle aziende produttrici di gadget più o meno essenziali alla nostra vita futura.

Certo, alla fiera dell’elettronica più famosa del mondo (anche se a presenze ridotte a quasi un quarto rispetto ai tempi d’oro, causa pandemia) non sono mancati i visori di ultima generazione per la realtà aumentata e per quella virtuale, che però nella versione originaria non sono comparsi per la prima volta quest’anno, bensì dieci anni fa (dieci!). Le variazioni sul tema — una per tutte, le tute equipaggiate con sensori diffusi per simulare le sensazioni dell’avatar (come quelle di Owo, o Shiftall) — non sfuggono alla regola, che ne fa in massima parte strumenti proposti da produttori di hardware e software per i videogiochi (Sony e Nvidia in primo luogo). Se in qualche caso il metaverso ha varcato la soglia delle piattaforme ludiche, è stato solo (ad esempio nel caso di Samsung) come canale di marketing, per trasformarsi in una vetrina di prodotti interattiva e virtuale — innovativa, divertente, senz’altro, ma pur sempre una vetrina. Tutto il resto si ferma, al momento, allo stadio di concept, prodotti sperimentali in cerca d’autore.

O meglio, di utilizzatore: perché il punto sta proprio qui. Dietro i sempre più sofisticati gadget non si intravede ancora alcuna idea delle situazioni d’uso: come da manuale, progettando nuove tecnologie ci si preoccupa principalmente delle funzionalità, e poco — o nulla — degli scenari effettivi in cui potranno essere utilizzate, dei problemi che il loro utilizzo potrebbe risolvere o dei desideri che potrebbe esaudire. Piuttosto che concentrarsi sulle “affordances” di questi oggetti e sistemi converrebbe focalizzarsi insomma sull’esperienza delle persone, sulle ragioni per le quali — al di là della curiosità, o del lifestyle, o della passione per l’innovazione — dovrebbero decidere di accoglierli nelle loro esistenze. Un’idea, non una parola; e un’idea di vita, non di tecnologia.

 

(fonte: Startmag.it)

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