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Quali scenari per l’Europa dopo il coronavirus. Intervista a Giovanni Farese

Mano a mano che la pandemia da coronavirus si è fatta più grave e il suo impatto negativo sull’economia più profondo, si sono moltiplicate le invocazioni e i richiami ad un nuovo “piano Marshall” per l’Unione europea. Ne ha parlato, ad esempio, anche il presidente del Parlamento europeo David Sassoli.

È un richiamo tuttavia problematico, per diversi motivi. La rivista Diritto Mercato Tecnologia ne ha discusso con Giovanni Farese, professore di Storia dell’economia presso l’Università Europea di Roma e presidente dell’Istituto per la Cultura dell’Innovazione.

Riportiamo di seguito l’intervista, disponibile a questo link.

In un articolo per Aspenia online, lei ha spiegato che il piano Marshall fu reso possibile da un contesto molto diverso da quello attuale: oggi manca, innanzitutto, una forte leadership americana. In passato gli Stati Uniti vedevano nell’Europa un alleato da sostenere e da proteggere dalle influenze sovietiche. Oggi – sostituendo l’URSS con la Cina – è ancora così?

Nell’articolo che lei generosamente cita, ho fatto riferimento allo “spirito” e non alla “lettera” del piano Marshall – lo European Recovery Program annunciato dal segretario di Stato George Marshall nel 1947 e approvato dal Congresso americano nel 1948 – perché quel piano fu reso possibile da condizioni che non esistono più. Lo spirito è quello della collaborazione post-bellica.

Il rischio oggi (ed è in parte già una realtà in corso) è che ciascun paese faccia da sé, ma che alla fine ci si ritrovi tutti più deboli e indifesi. Alcuni paesi europei hanno oggi lo spazio fiscale per interventi massicci: si ha dunque l’impressione di salvarsi, per il momento, da soli.

Ma nel medio termine, in un mondo che sarà relativamente meno globalizzato nel prossimo decennio, se si riduce lo spazio per l’export europeo, le conseguenze saranno gravi per tutti. Occorre rilanciare la domanda interna e il mercato interno.

Non si tratta solo di un richiamo alla solidarietà, pur necessario in una comunità, ma di riconoscere i propri interessi di lungo periodo. Un’Europa più forte è nell’interesse di tutti, specie a fronte della nuova guerra fredda a cui lei allude nella sua domanda.

La ricostruzione non dovrebbe fermarsi alla sanità, ma configurare un piano per i beni pubblici europei, dall’ambiente, all’istruzione, alla mobilità, alle reti, anche immateriali. La crescita economica è legata ai beni pubblici. La nuova guerra fredda è e sarà, come la prima, una guerra fredda industriale e tecnologica.

Alla luce delle parole di Mario Draghi e della sua richiesta di un “cambio di mentalità”, quali sono – secondo lei – gli scenari possibili per l’Italia e per l’Europa?

Nel breve termine, gli scenari sono quelli di una forte contrazione, ma occorre premettere che tutti gli scenari dipendono dalla durata della pandemia: alcuni paesi sono indietro di settimane, altri di mesi. Pensi all’Africa. L’impatto sui più poveri può essere devastante.

In ogni caso, il PIL mondiale potrebbe decrescere del 2 per cento, quello dell’area euro del 4 e quello dell’Italia tra il 5 e, secondo alcuni, il 10 per cento. In questo contesto, occorre anzitutto assicurare la vita delle imprese (attraverso la liquidità bancaria e le garanzie pubbliche) e i posti di lavoro, condizionandoli al mantenimento dei livelli di occupazione. Se si erode la capacità produttiva oggi, si erode domani la base fiscale domani, con conseguenze sulle politiche pubbliche.

Nel medio-termine – ma la discussione è già iniziata – si tratta di individuare strumenti europei per scopi europei. I paesi “frugali” propongono di affidarsi il MES (che tra le altre cose non piace ai sovranisti del Sud Europa); i paesi “espansivi” a qualche forma di Eurobond (che tra le altre cose non piacciono ai sovranisti del Nord Europa).

C’è una strada intermedia: il motore della ricostruzione potrebbe essere la Banca europea per gli investimenti, che già oggi svolge un lavoro egregio, ma che avrebbe bisogno di un aumento di capitale affinché il suo intervento possa essere adeguato alle necessità del momento.

Le sue obbligazioni sarebbero sottoscritte anche dalla Banca centrale europea, come già avviene oggi, ma con una novità: la BCE ha recentemente rimosso il limite del trenta per cento alla sottoscrizione delle emissioni di un singolo emittente e del cinquanta per cento sulla singola emissione, creando così uno spazio non solo finanziario, ma soprattutto politico, per far avanzare il processo di integrazione.

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